Pizza stellata o farcitura stellata?

Quando un’invenzione diventa un classico replicabile.

Ci sono stelle sulla pizza? Tecnicamente no: mai la guida michelin, a dispetto del lavoro fatto dai suoi grandi interpreti, ha attribuito stelle a una pizzeria.
E, forse, anche, ed ancora, a ragione. Il ciclo di incontri alla Pizzeria “Salvo” di Napoli, al suo terzo appuntamento, con un tristellato a firmare le farciture, ci dà l’occasione di riflettere sul tema, dal momento che a Napoli, la patria della pizza, niente del genere si era ancora visto. Facciamo un breve passo indietro. I “quattro mani” sono una formula consolidata nell’offerta di serate a tema destinate al confronto e allo scambio di esperienze. Ne abbiamo visti di ogni genere e rango. Non sono nuovi ma raccolgono certamente l’occasione di “prendere due piccioni con una fava”. Nella recente occasione, dai Salvo, che parallelamente cavalcano molto bene la moda dell’abbinamento della pizza ai cocktail, addirittura i piccioni sono tre: il pizzaiolo, lo chef stellato e il bartender. E che piccioni! Quello che è stato chiamato da Salvatore Salvo, Fabrizio Mellino, tristellato de “I Quattro Passi” e Edoardo Nono, bartender di “Rita&Cocktails” di Milano, “un divertimento” che dà da pensare seriamente.
 
Per una notte o per sempre.
Cosa vuol dire oggi farcire una pizza? Per una sera, per una stagione o per tutta la vita. La questione è pari a quella di trovare la risposta su come si passi dal fare un ottimo piatto a fare un piatto “cult”. E come farlo rientrare in un Olimpo di ricette che sono l’essenza stessa della cucina italiana. E quindi eternarlo. Come gli Spaghetti al pomodoro fresco e basilico. Il divertimento cui invitavano i tre a Napoli è eufemismo. Gli incontri e gli scambi di ricette e know how tra professionisti sono ben altra cosa. Perché non la chiamano avanguardia? O studio, allora?
Queste occasioni apparentemente “sciolte” sono un fatto molto serio, perché è bastato alzare la testa dal bancone, afferrare la mano tesa da qualche gastronomo o chef illuminato, per cogliere le occasioni del mondo “lì fuori”. Le pizze, se non di Stelle, hanno cominciato a parlare di una dignità nuova. Ma l’incontro tra un pizzaiolo e un tristellato, se non è più la fantascienza di una quindicina di anni fa, è ancor oggi, quantomeno, da celebrare. Forse solo Ciro Salvo, nel 2017, è riuscito a incontrarne di più in un colpo solo: quando, per il decimo anniversario di “Eataly Torino”, si trovò solo tra ben dieci stellati: Massimo Bottura, Davide Scabin, Moreno Cedroni, Claudio Sadler, Enrico e Roberto Cerea, Gennaro Esposito, Philipp Léveillé, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Luigi Taglienti e, infine, il pasticciere Luca Montersino.
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Da quando?
Ma quando è iniziato il duettare tra pizza e alta cucina? Interrogata sul primo incontro tra uno chef stellato e un pizzaiolo, l’Intelligenza Artificiale prende un granchio e dice che esso risale al 2023, durante “C’è + Gusto” di Bologna. In quella occasione, lo chef Alain Ducasse (che già lo aveva “incrociato” dal 2015) assaggiò la pizza di Franco Pepe e l’ha definita un ‘piatto di haute couture’. Ma l’incontro, nella fattispecie, non solo non è del tipo “quattro mani” di cui sopra, ma soprattutto è troppo recente. Andando indietro, già nel 2011, durante la prima edizione milanese di “Identità Golose”, Gino Sorbillo portò sul palco del Congresso, con Gennaro Esposito presente tra altri, la tradizione della pizza napoletana, affiancato da Luigi Dell’Amura e Simone Padoan.
 
Seguire le tracce lasciate dai pizzaioli nelle kermesse, nelle serate e nelle fiere è un ottimo modo per indagare il tema. In quanto appunto sono stati “divertimenti” significativi, flirt che hanno spianato la strada all’amore per sempre. Se, oggi, pizzaioli e chef si fanno una telefonata e si incontrano tra baci e abbracci, se si scambiano reciproci accorati apprezzamenti, in un passato non troppo lontano, qualcuno si è certamente chiesto cosa ci facesse, un pizzaiolo, a un Congresso come quello di Paolo Marchi, oppure sotto i templi di Paestum, o in una Guida dedicata e ancora tra i talenti Emergenti italiani. Il pizzaiolo tornava alle sue origini storiche: attirare il pubblico e sfamarlo. Ma la domanda era: aveva qualcosa di squisitamente tecnico (e non folcloristico) da dire?
 
Se la memoria non mi inganna, fu Enzo Coccia, da molti additato come il pioniere dei pionieri, a partecipare come primo pizzaiolo a “Identità Golose”. Ma non nel 2005, anno della prima edizione del Congresso a Palazzo Mezzanotte, come dice AI (che annaspa ancora su tutta la linea), ma nel 2012, con “Identità di pizza”. Nel 2008, invece, nasceva “Le Strade della Mozzarella”, quale congresso internazionale di cucina d’autore, a partire dalla “regina bianca”. E lui c’era. E sempre Coccia era, già nel 2009, tra i fondatori di CHIC (Charming Italian Chef), associazione che mise insieme svariati professionisti della ristorazione italiana di alta fascia per favorire lo scambio di idee e esperienze tra i soci. Nel 2010, poi, forte di una ricerca sugli ingredienti iniziata anni prima, bissava la sua “PizzAria”, con “La Notizia 94”, la prima pizzeria a essere premiata con la Forchetta dalla Guida Michelin.
 
Senza paracadute
Non erano, allora, usuali gli incontri tra pizza e cucina, figurarsi il lavoro congiunto. Il “divertimento”. Quelli che innovavano la pizza studiavano e applicavano la ricerca relativa al prodotto tutti da soli. Nessun ghost consulente addetto alla selezione degli ingredienti, nessuno chef a suggerire e nessuno scambio culturale. Eppure, la pizza, nel tempo, ha ampliato la sua gamma di farciture e le ha consolidate al punto da farne dei classici intramontabili. Negli assaggi fatti in questi anni di questi cimenti a quattro mani, devo dire che, in fondo, pare un pizzaiolo napoletano interpreti la pasta e il suo legame con il topping meglio di chiunque altro.
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Quando, allora, una delle ricette dei “quattro mani” diventerà classico?
In teoria, un disco di pasta eccellentemente realizzato come quello dei “Salvo” (per tornare ai maestri di San Giorgio a Cremano) è un piatto perfetto per una farcitura “gourmet” realizzata ad arte. Ma per il fatto stesso di non essere una base (un piatto, appunto), quella napoletana, presenta delle grosse insidie: contrappunto, cottura, consistenza, gradevolezza, armonia complessiva dipendono dal passaggio in forno. Fabrizio Mellino, per tornare alla serata di Napoli, è sembrato averlo intuito. In quel “quattro mani” ha mostrato la saggezza di una famiglia di ristoratori di grande esperienza e la classe di un giovane tristellato espressione di un angolo paradisiaco della terra campana: la Costiera amalfitana, il simbolo della semplicità e bellezza in salsa italiana.
 
L’ottenimento di una ampia “palatabilità”, al di là della ricercatezza, della combinazione degli ingredienti ha reso eterni e indimenticabili i grandi classici della cucina e pizza italiana, taluni semplicissimi. Preparazioni come la Marinara e la Margherita, o come la Carbonara e la Nerano, simboli della cucina nazionale. Nella chiacchierata che abbiamo fatto appena prima della serata a quattro mani dai “Salvo”, non ho potuto resistere dal chiedere a Mellino cosa pensasse della pizza che cerca abbinamenti gourmet e cosa della Nerano sulla Pizza, dato, che essa, con la Genovese e il Ragù napoletano, o la Carbonara e la Cacio e Pepe, sono tra le ricette più abusate d’Italia. E la sua risposta è stata semplice e illuminante. Ragionandoci a qualche giorno di distanza, direi perfino classica: “La pizza deve restare una specialità del popolo”, ha detto il giovane tristellato, con ciò volendo esprimere tutt’altro che una subalternità della pizza alla cucina. No, Fabrizio Mellino mi ha raccontato di una grande ammirazione per questa tradizione, della quale è osservatore rispettoso.
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Del suo rispetto parlano in effetti anche gli assaggi delle sue creazioni (su tutte Spring explosion, con favette primaverili e lardo di seppia e ricciola), tutte ispirate a una attitudine al servizio del “piatto di pasta lievitato”, ammirevole. Non altrettanto (ma è stato un autentico divertimento, bisogna dirlo!) i magnifici cocktail di Nono che ha spiazzato in ogni momento con nuances di fragola, “peperone anchio”, cetriolo, “pomodoro niasca” e tequila. Mellino ha lavorato su ingredienti semplici per una ricerca di compostezza e sapore che non puntava a creare una pizza dagli effetti speciali ma una pizza da mangiare e adottare sempre.
 
E come avviene? Quanto resta del “divertimento” di una notte? La risposta è nelle parole di Mellino. Lui, sulla pizza, non ha mai avuto occasione di assaggiare la Nerano ma – confessa - non la considera un insulto per principio, né un tormentone. Alla risposta di pancia preferisce il pragmatismo: “Quando una salsa diventa tanto amata da essere un classico, non si può che essere felici, perché vuol dire che ha questa forza. Solo questo conta, in fondo. E per la Nerano è così.” Il popolo è sovrano: è lui a decidere cosa è per una notte e cosa è per sempre. Vale tanto per la Nerano quanto per la Margherita. E vale pure per le pizze “gourmet” che un giorno, chissà, saranno dei nuovi classici.
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di Monica Piscitelli

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