Napoli in Brianza. Corrado Scaglione dialoga con Antonio Puzzi.

Dice di essersi innamorato del lavoro, guardando la mamma all’opera in trattoria. L’emulazione e la voglia di essere utile in ambito familiare erano il motore, perché a richiederlo erano le forze economiche della casa, non troppo floride. Crescendo, ciascuno ha preso strade diverse e, dopo le scuole medie, Corrado avrebbe voluto frequentare l’istituto alberghiero ma era a Milano e dunque troppo lontano dalla Brianza, in cui la famiglia risiedeva, così fu “costretto” a frequentare l’ITIS di Carate Brianza, prendendo la licenza triennale «per il rotto della cuffia». «Ognuno di noi tre fratelli – afferma Corrado Scaglione – alla domenica faceva qualcosa per sistemare il locale e poi si andava tutti a messa! Non avevamo un giorno di riposo se non il martedì, nel pomeriggio; era solo in quel momento che, in estate, per premiarci, papà ci portava alla piscina comunale».

Insomma, non eri una cima a scuola. Poi cos’è successo?

"Intrapreso il mondo del lavoro, non mi sono più fermato! Lavoro da quarant’anni, ho iniziato in ristoranti e alberghi di gran fama, tra cui il Grand Hotel Principe Savoia di Milano, La regina a Venezia, l’Enoteca Pinchiorri di Firenze, il Wesbury Hotel a Dublino. Un giorno, però, di ritorno a casa, papà mi disse: “o lo porti avanti tu il locale o lo vendo”. Insomma, mi ricattò. Credimi, non c'è cosa peggiore di aver lavorato per anni a quei livelli e poi trovarsi improvvisamente catapultato in una trattoria, con mio padre. Avrei voluto morire! Dopo un anno di transazione decisi con mio fratello di prendere la situazione in mano: dovevo imparare a fare l’imprenditore, forse la cosa più difficile che ho fatto e continuo a fare. Nel 1994 apro il Lipen: una storia lunghissima fatta di tanti dolori e poi molte, moltissime gioie, soprattutto per merito della pizza. All’inizio, da cuoco, la sottovalutavo e snobbavo ma oggi rappresenta la mia vita e la mia felicità."
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E oggi allora cos’è la pizza per te?

"Solo a pronunciare la parola “pizza” provo tanta felicità. È stato il punto della mia ripartenza, il mio completamento come appassionato del mondo del cibo. Ogni tanto faccio fatica nel sentire i miei amici chef stellati che parlano di ingredienti fantasmagorici e poi non sanno come fare una pizza come si deve: si sono resi fighi con termini impronunciabili e non sanno riconoscere la differenza tra una pizza napoletana e una romana; eppure questa è cultura italiana, è il nostro territorio, la nostra sostenibilità. La pizza per me è questo: cultura."

Tu hai vinto la sfida di portare la “pizza napoletana” in Brianza: qual è il segreto del successo?

"Wow! Direttore questo è un colpo basso. Tutto è avvenuto nell’estate 2001: fu in quel momento che cominciai a fare qualche pizza in maniera autonoma e non mi convinceva per nulla. Internet non era come adesso, c'era davvero poco, ma quel poco mi è bastato. Trovai un articolo che era firmato da un pizzaiolo al tempo per me sconosciuto, oggi un grande amico: tal Enzo, Enzo Coccia, che parlava della tradizione napoletana e della sua Notizia. Lasciai tutto in sospeso e cominciai a cercare un aiuto che potesse darmi uno spunto tangibile: non potevo andare a Napoli, non avevo soldi, avevo due figli la cui somma degli anni era 3 ed ero oltretutto in procinto di una separazione societaria con mio fratello; insomma, il classico bagno di sangue. Nella mia ricerca “low cost”, trovai un “Ciro" sulla mia strada, un pizzaiolo napoletano che viveva qui in Brianza da un po’ di anni e che era senza soldi come me ma, alla mia proposta, fidandosi, mi disse: “Si, ti aiuto”. Va detto però che un attimo prima mi aveva dato dello scemo perché gli avevo chiesto: “Facciamo la vera pizza napoletana in Brianza?”. Ciro aveva ragione, anche quando mi disse: “Ricordati che non deve mai mancare il basilico su una vera pizza napoletana”. Da quel momento sono passati ormai più di vent’anni e al Lipen facciamo un grande lavoro tutto l’anno e abbiamo investito tempo a spiegare il perché i nostri prodotti sono così. Anche se ogni tanto ancora oggi una richiesta di “ben cotto” me la rifilano. La mia risposta è sempre la stessa: “Al sangue non riesco a farla”. Ad ogni modo, sono onorato in cuor mio di aver portato le mie pizze qui in Brianza: Enzo Coccia, Gino Sorbillo, Attilio Bachetti, Guglielmo Vuolo dicono da sempre che sono “l’undicesimo in campo”."
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Non di solo pizza: la tua passione per i lievitati ti ha portato a sfornare pane e panettoni e ad aprire un forno. Ci racconti il perché di questa scelta?

"Sai, quando cominci a imparare, la sete della curiosità aumenta e i confronti con altri colleghi ti stimolano ancora di più. Nel percorso, i mulini diventano per un pizzaiolo dei punti cardine, perché ti insegnano a conoscere sempre di più la materia prima e soprattutto come poterla plasmare. Ed è questo che fa la differenza nella crescita. Ecco, cosi ho cominciato e oggi, durante l’anno, faccio panettoni. Poi, il Covid mi ha dato una opportunità per creare qualcosa a cui non avevo mai pensato: infatti, con il locale fermo, potevo pensare ad altro ed è cosi che è nata Cerere. Il nome è quello della dea delle messi e dei raccolti e da oggi è anche quello del mio locale, a cui ho voluto dare una veste chic, rendendolo “l’atelier del pane”. Il pubblico ha capito che non era un gioco perché il pane è una cosa seria e così sono anche arrivati i riconoscimenti, dopo solo un anno. Ora facciamo il calendario del pane, sia per i classici che per quelli gourmet che hanno cadenza stagionale e festiva e prepariamo pane per ogni evenienza: dal cestino della domenica alla bomboniera per le cerimonie."

Il Nord è l’area del rinnovamento della pizza ma tu hai deciso di preservare la tradizione: come possono convivere tradizione e innovazione?

"Se ti riferisci ai grandi innovatori, come Bosco e Padoan, non posso che dirgli grazie”! Senza di loro, probabilmente quei riflettori non sarebbero arrivati anche a noi, in un’area geografica con grande potenziale ma mai troppo presente nella comunicazione di settore. Persone come loro ci hanno fatto capire che c’era ancora tanto da fare e che potevamo farlo anche noi, sempre con metodo, tecnica e cultura, con la ricettazione (senza più andare ad occhio), con una corretta comunicazione: hanno aperto gli occhi a tanti e tanti giovani hanno deciso di emularli. Sono stati innovatori in tutto… ma anche la tradizione all’inizio è stata innovazione."
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Chiudiamo con una domanda molto personale che a un pizzaiolo non dovrebbe mai essere fatta: qual è la pizza che più ti rappresenta?

"Sono tutte figlie mie e, al pari di un padre, non posso scegliere un figlio. Posso dirti sicuramente che la “parte” della pizza che mi rappresenta di più è l’impasto. Se però devo scegliere una pizza completa direi sicuramente la Marinara, con il pomodoro San Marzano “a pacchetelle”, basilico, un filo di olio aromatizzato con dell’aglio tritato e un pizzico di origano. Questa pizza non ha orari per essere gustata: è sempre il momento giusto. Se invece devo consigliare una delle mie pizze, senza dubbio allora parlo della Margherita 3D, una degustazione di 3 pomodori e 3 mozzarelle abbinate: datterino, con fior di latte di Agevola; piennolo vesuviano con bufala Dop e pomodoro giallo da Serbo, con provola affumicata: un viaggio attorno al Vesuvio che ho fatto e che ho portato qui sulle nostre tavole e che è ormai diventato un must del Lipen."
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