Dalla fattoria al ristorante, con il ristorante che valorizza i prodotti del territorio

C’è ancora e continua il dibattito fra gli studiosi di storia e cultura enogastronomica relativo al rapporto fra cucina e territorio. La storia ci conferma che le cucine locali sono il risultato di un rapporto strettissimo e quasi obbligato fra le cucine di casa prima, poi d’albergo e, infine, di trattorie e ristoranti con i prodotti provenienti dal territorio d’attorno. E questo è perdurato dalle origini e fin quasi ai nostri giorni e più precisamente agli anni 70-80 del secolo scorso.
In questi ultimi tempi c’è chi afferma che la ristorazione è finalmente in grado di prendere il volo (come se prima fosse solo una cucina rustica e contadina) e, per ottenere questi risultati, dicono, deve essere capace di uscire dai prodotti del territorio per prendere il meglio dove lo trova, in qualsiasi parte del mondo esso sia. Questo principio ispira, ad esempio, ormai da tempo, la grande cucina internazionale, non inquadrabile in un determinato territorio, sia a Londra come a New York, a Hong Kong come a Parigi. E lo stesso avviene in quasi ogni parte del mondo negli alberghi per turisti, dove, ad esempio, le proposte dei buffet sono molto simili, con pochissime concessioni alle tradizioni locali, salvo la ricchezza della frutta esotica nelle zone tropicali.
Questo modo di intendere e realizzare la cucina è causa e frutto della globalizzazione e ha come spiacevole risultato il rischio di mangiare ovunque le stesse cose, prodotte da apposite industrie alimentari multinazionali, perdendo via via le tante preziose biodiversità agroalimentari, quelle buone, sane e utili, s’intende, che il mondo ci offre ancora con straordinaria generosità.

Dalla fattoria alla tavola

Salvare le biodiversità, che rappresentano un inestimabile valore culturale, ambientale e gastronomico, è fondamentale anche per non privare chi arriverà dopo di noi dei tanti ottimi prodotti che impreziosiscono attualmente le nostre tavole.
E ogni territorio, per non impoverirsi e cadere in un trascurabile anonimato, ha il dovere di conservare e potenziare la propria tipicità e le proprie caratteristiche che si esprimono nelle tradizioni produttive del luogo. Questi prodotti, poi, devono essere privilegiati dai ristoranti locali proprio per valorizzare la propria identità, differenziandosi così dai ristoranti di altri territori. Il buongustaio che va alla ricerca di piatti interessanti e diversi fra loro li trova se i ristoratori e i cuochi attingono in via primaria ai prodotti del territorio in cui sono collocati. La cosa non è espressione di stupido provincialismo – come qualcuno vorrebbe insinuare – semmai il contrario, poiché usufruendo dei prodotti che nascono nella campagna e negli orti vicini al ristorante si ha una filiera corta, con risparmio di costi, ma soprattutto con prodotti sempre freschi e scelti personalmente dal ristoratore.
Una cucina che attinga ai prodotti del proprio territorio valorizza la propria identità e, attraverso i piatti – che devono essere naturalmente ottimamente realizzati – regala al commensale gusti e sapori che non esistono in altre parti – in altri territori – e gli mostra nel contempo, assieme ai prodotti, la cultura e le tradizioni locali. E così la cucina, oltre che nutrire ed emozionare, si fa autentica cultura.

Dalla tavola alla fattoria

Se il percorso prima indicato serve a valorizzare l’identità di un ristorante, c’è anche il percorso inverso, pur esso molto importante. Impiegare in cucina i prodotti del territorio facendoli conoscere ai commensali significa valorizzare quei prodotti, valorizzare il lavoro di chi li produce, valorizzare il territorio. C’è dunque uno scambio estremamente vantaggioso per tutti i protagonisti, sia diretti che indiretti, dell’evento gastronomico: il commensale che gusta piatti buoni e interessanti che non trova ovunque; il ristoratore che attingendo a prodotti vicini, scelti personalmente fra quelli di alta qualità, riduce i costi rispetto ai prodotti che provengono da lontano e sa esattamente quello che offre ai commensali; infine il produttore perché attraverso il ristorante vede conosciuti e apprezzati da un numero crescente di persone i suoi prodotti.

Per una ristorazione di qualità

I due percorsi appena descritti per raggiungere i risultati indicati richiedono qualcosa in più. L’impiego dei prodotti da parte del ristoratore è potenzialmente un marketing efficace sia per il ristoratore stesso, che si differenzia da altri che per il produttore che vede valorizzato il suo lavoro. Ma perché ciò avvenga occorre – ed è fondamentale e condizione indispensabile – che quei prodotti siano trasformati in piatti nel modo migliore, con adeguate tecniche, mettendo in giusta luce le caratteristiche migliori dei prodotti, valorizzandoli, senza farli confondere con altri prodotti.
Faccio un esempio. La primavera è la stagione degli asparagi e in diverse parti, soprattutto in Veneto e in Friuli Venezia Giulia ed anche in altre regioni, si prepara un piatto delizioso, il risotto agli asparagi bianchi. Questo è un piatto serio purché sia realizzato bene, per esaltare sia il riso che gli asparagi.
Ma se, ad esempio, vi aggiungo, come purtroppo succede, le code degli scampi – risotto scampi e asparagi – confondo l’aromatico degli asparagi col dolce degli scampi, offendendo entrambi i prodotti.
Meglio, molto meglio, preparare due risotti: risotto agli asparagi e risotto agli scampi, ciascuno dai gusti precisi, chiari e definiti, senza dannose confusioni.
Ecco allora quel qualcosa in più cui prima accennavo: ci vuole una cultura dei prodotti, una cultura riguardante gusti e sapori, mettendo al bando l’improvvisazione, le copiature prive di senso e le storpiature gastronomiche.
È vero che un risotto agli asparagi e scampi è molto buono e gradito, ma il pregio gastronomico di unire al risotto un solo compagno di viaggio è finezza culturale, oltre che gastronomica che rende il piatto di valore internazionale, un vero piatto da grande cucina, un piatto da esigenti gourmet, anche se realizzato dalla cucina di una semplice trattoria di paese.
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di Giampiero Rorato

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