Supplì e Maritozzo, i re (dello street food) di Roma

Roma a tavola si traduce in tantissimi piatti saldi alla tradizione ma, se cerchiamo i simboli storici di questa città, verso cui c’è un attaccamento profondo del popolo, questi sono il Supplì e il Maritozzo. Due sovrani senza tempo e dalla lunga storia, due simboli golosi di una città che dalla strada sono entrati nei locali e in pizzeria come protagonisti di menu moderni che rispolverano la tradizione, anche in modo audace. E, a nostro avviso, replicabili ed esportabili (ma si raccomanda rispetto per le origini).

Il Supplì

Secondo Wikipedia, il supplì è: “una pietanza rustica tipica della cucina romana. Una sorta di polpetta di forma allungata cilindrica, preparata con riso bollito, condito con sugo di carne e pecorino romano, con all’interno una striscia di mozzarella, passato nel pane grattugiato e fritto in olio bollente”. Una descrizione che farebbe inorridire un romano verace. Eh sì, perché guai a chiamarlo “polpetta”: a Roma il supplì è supplì, la polpetta è tutta un’altra cosa. Il supplì è simbolo della romanità, il re del cibo di strada, uno scrigno di riso al pomodoro che nasconde al suo interno un cuore di mozzarella filante e che porta con sé un’affascinante storia di contaminazione e di etimologia.
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La storia del Supplì e il suo nome

Fonti certe su come sia nato il supplì non ne abbiamo. La sua etimologia deriva invece dal termine francese “surprise”, nel tempo poi romanizzato in supprì e supplì. Siamo agli inizi dell’800 e Roma era stata occupata dalle truppe francesi: leggenda vuole, infatti, che un soldato francese, gustando per le vie di Roma questa crocchetta di riso appena fritta, definì la mozzarella al suo interno una vera e propria “surprise”, una sorpresa. Molto probabile che la nascita del supplì si colleghi all’evoluzione, con i dovuti adattamenti locali, dell’arancino siciliano e della “pall ‘e ris” dei napoletani. Una cosa certa è che questo spuntino nasce proprio sotto forma di street food, venduto all’inizio solo per strada. Bisogna infatti attendere il 1874 per trovarlo, con il nome di “soplis di riso”, nel menù della “Trattoria della lepre” a via dei Condotti. La prima ricetta ufficiale risale al 1929, grazie ad Ada Boni e al suo libro “La Cucina romana” che scrive - forse ispirandosi al ricettario di suo zio Adolfo Giaquinto - di una crocchetta ottenuta cuocendo il riso “in un po’ di sugo di umido o, in mancanza di questo, in un sugo finto”, condito “con burro, parmigiano grattato e un paio di uova intiere sbattute come per frittata”. E, per quanto riguarda il ripieno “più ricco o meno ricco, secondo l’opportunità”, la Boni ci mette rigaglie di pollo, funghi secchi e carne in umido tritata. Nel tempo il supplì si trasforma, o forse meglio dire, si adatta ai gusti e agli ingredienti.
Si passa da un riso con ripieno ad un risotto riposato con il cuore filante: il formaggio diventerà mozzarella e le rigaglie saranno sostituite negli anni ’50 dal classico ragù. Una cosa invece rimane sempre uguale: il supplì - per essere un ottimo supplì per il romano - deve essere ben fritto, croccante, umido e “al telefono”, ovvero la mozzarella che si scioglie al centro deve tenere unite le due metà spezzate. 
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Ma oggi a Roma è possibile trovare il supplì come si faceva una volta? L’ho chiesto a Venanzo Sisini de “La Casa del Supplì”, che da più di 40 anni produce e frigge supplì: “L’unico nostro obiettivo è sempre stato quello di rispettare la tradizione e non snaturarci. Dall’apertura della prima sede a Trastevere nel 1979 in via Francesca Ripa, la ricetta dei nostri supplì è sempre la stessa e possiamo dire con convinzione che da noi si può trovare il supplì “classico”, quello originario fatto con il ragù di carne e rigaglie di pollo, cotto lentamente, con al centro mozzarella filante e con una panatura leggera. Il risultato (anche testato da noi, ndr) è un supplì croccante ma morbido, succoso ma compatto, sicuramente con un gusto intenso”. Dalle rosticcerie alle pizzerie al taglio di quartiere, alle trattorie o pizzerie da tonda, il supplì è il re del fritto romano, il protagonista incontrastato degli antipasti: perché a Roma il fritto prima della pizza è una vera religione. Se fate un giro per Roma, scoprirete poi che le varianti sono diverse e, a parte il classico supplì “al telefono”, di ingredienti e ricette per condire il supplì ce ne sono per tutti i gusti. Esiste il supplì carbonaro, all’amatriciana, fave e pecorino, gricia, carciofi e guanciale, con la cicoria: tutta la cucina romana, insomma, passa in
questa “palla di riso”, impreziosendola. E poi ci sono anche le stagionali come zucca e pancetta, radicchio e gorgonzola, piselli e funghi. Altro elemento che contraddistingue il supplì è la panatura e qui si confrontano (o si scontrano) due scuole di pensiero: la panatura classica a base di uovo e pangrattato per un risultato finale dorato e più sottile e la panatura doppia per un vero effetto “crunchy” che ha letteralmente spopolato.
Cosa molto interessante è che da qualche tempo è in atto una vera sfida tra chef e pizzaioli a colpi di supplì e dei suoi parenti più stretti, sempre fritti ovviamente. C’è chi gioca con il cuore, chi con le mantecature del riso piuttosto che con le panature realizzate ad hoc: il supplì moderno è pura speri- mentazione. A Roma il fritto è amato, cercato, desiderato. E, da questa ricerca appassionata, esplodono in una forma estrema e mai banale di “food porn” le idee alternative ai supplì, ovvero una personalizzazione romana delle frittatine napoletane. Jacopo Mercuro si inventa il Sampietrino, un cubo fritto ricoperto dalla ormai celebre panatura di 180grammi che fa da scrigno ai ripieni più bizzarri, veri e propri piatti a base di pasta come “spaghetto quadrato, guanciale, pecorino e carciofi alla romana” o quello a base di lasagna. Avete capito bene - e non scandalizzatevi - perché a Roma si frigge di tutto, soprattutto in pizzeria. Mentre Mattia Lattanzio (ex chef di “Pizza Illuminati Seu” e oggi founder di “Extremis pizzeria”) rilancia con i Lingotti che racchiudono delle vere e proprie ricette costruite su misura di panatura, come ricotta e nduja, spuntature e purè, tortellino doppia panna. Come si dice a Roma: ‘na cosetta!
Evidente l’evoluzione di questo “soplis di riso” che a tavola ha acquistato grande dignità di piatto, su cui incentrare delle proposte qualitiative e di gusto per aprire con stile una cena.
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Il Maritozzo

Dolce simbolo della pasticceria romana, il maritozzo affonda le sue radici ai tempi dell’antica Roma, dove le mogli preparavano ai loro mariti delle pagnotte addolcite con miele e uvetta per un pasto sfizioso e semplice. Si deduce che l’impasto di questo “panino” possa essere il predecessore del maritozzo, come lo si conosce, la cui ricetta originale prevede l’aggiunta dell’uva sultanina. Successivamente, nel Medioevo, questo panetto venne chiamato, scherzosamente “Er Santo Maritozzo” o “Quaresimale” perché era l’unico dolce che si poteva mangiare per interrompere il digiuno della Quaresima. Aveva una forma più piccola e un colore più brunito rispetto a quella che conosciamo oggi ed era arricchito con pinoli, uvetta e scorza d’arancia candita. Ma perché si chiama Maritozzo? Le ipotesi sono diverse. Molti studiosi, artisti e poeti, quali Giuseppe Gioacchino Belli, Gigi Zanazzo, e Adone Finardi si sono cimentati nell’elogiare lo squisito dolce e raccontano la romantica pratica in cui i giovani ragazzi davano alle proprie fidanzate un maritozzo il primo venerdì di marzo. All’interno del suo cuore morbido, veniva non di rado nascosto un anello o un oggetto d’oro, quale pegno d’amore. Da qui il simpatico appellativo canzonatorio di “Maritozzo” che veniva dato ai futuri mariti. Un’altra storia racconta invece che il giovane più bello del paese riceveva in dono un dolce a forma di cuore realizzato dalle ragazze in età da marito per poi scegliere come futura sposa la creatrice del più buono. Il maritozzo nasce dolce: si tratta di un panetto semplice, composto da un impasto fatto di acqua, farina, lievito madre, latte, zucchero, uova, burro ed olio, che mette d’accordo tutti. Viene tagliato nel mezzo e farcito con tanta panna, di solito fresca e con poco zucchero. Lo si trova in tutte le pasticcerie romane e, in quelle storiche (templi riconosciuti del maritozzo), è un must della colazione o della domenica e, come vuole la tradizione, si mangia affondando inevitabilmente il naso nella panna. Nel tempo, ha assecondato bisogni e tendenze e lo si trova in varianti differenti: dolce, salato, vegan e gluten free. Tra le reinterpretazioni troviamo quello con crema chantilly, con la ricotta e anche con il gelato (con cui si sposa divinamente) e potrebbe diventare un originale dessert per ristoranti e pizzerie. 
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Il maritozzo salato

La versione salata consente di dare sfogo alla creatività, incuriosendo e offrendo la massima soddisfazione di gusto, declinando ricette tipiche, materie prime di territorio e abbinamenti saporiti. In questo caso diventa la specialità, anche in versione gourmet, da poter gustare durante un aperitivo o come antipasto, come alternativa del solito panino, come momento street food. Il maritozzo salato ha una riduzione di percentuale di zucchero ed un sapore più neutro, in modo da adattarlo meglio a diversi tipi di ingredienti. Molti chef, anche tra quelli stellati, hanno proposto il loro maritozzo “gourmet”. La fantasia non ha limiti perché ne esistono di svariati tipi: con alici e burrata, broccoli e salsiccia, prosciutto crudo e stracciatella, baccalà e verdure, salmone e rucola, insalata di pollo, ricotta pesto e pomodoro e chi più ne ha più ne metta!
A Roma il primo e unico format dedicato alla cucina romana e al maritozzo salato nasce a Trastevere nel 2016 e, da startup innovativa, diventa in breve tempo il punto di riferimento per gli appassionati del genere. Si tratta del Maritozzo Rosso di Edoardo Fraioli, un format semplice e al tempo stesso vincente tanto da esser stato premiato anche come Miglior Street food del Lazio 2022 da Il Gambero Rosso. Qui si possono mangiare maritozzi in tutte le salse o, per meglio dire, con tutte le salse: dai classici piatti romani alle ricette più gourmet. Al maritozzo, spaccato a metà nella sua parte superiore come per essere farcito con la panna, si uniscono invece piatti della tradizione rivisitati con tecniche di cottura moderne e basate su materie di primissima qualità, come stracciatella e alici o stracciatella e gamberi, amatriciana, pollo al curry, spuma di mortadella e pistacchi. Fraioli fu il primo in assoluto a lanciare questa versione irriverente del maritozzo aprendo per molti una strada culinaria da sperimentare: il maritozzo farcito nella sua versione mini o maxi diventa un giocoso antipasto, finger food da condividere in un aperitivo, un raffinato panino farcito. Addirittura una portata gourmet di molti chef fine dining o stellati. Anche in questo caso, rompere le regole e tradire la tradizione è stata una scommessa vincente. E su cui si potrebbe puntare ancora di più.
Curiosità:
Il primo sabato di dicembre si celebra il Maritozzo Day per celebrare questa specialità romana in tutte le pasticcerie della città (e non solo).
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di Noemi Caracciolo

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