La fuga dell’acciuga

Cronaca di una scomparsa annunciata

C’erano una volta le acciughe sulla pizza. Star indiscusse, regalavano tocchi di “umamità” anche ai condimenti più semplici: sfidavano l’uniformità dei gusti a colpi di vanitosa sapidità e impreziosivano gli spicchi di napoletane, siciliane e romane.
Poi, un giorno, sono sparite: nessun comunicato ufficiale, nessun addio strappalacrime. Solo una sensazione di vuoto, simile alla nostalgia. A Parma, durante l’ultima edizione del Campionato Mondiale della Pizza 2025, le abbiamo cercate. Niente, o quasi. Dopo anni in cui i pizzaioli si emozionavano anche solo a pronunciare “acciughe di Cetara”, “di Monterosso”, o “del Cantabrico”, l’attenzione sembra essersi spostata verso lidi più sicuri e tornate ad esclamare: “Terra!”, con rinnovato entusiasmo. Perché l’ingrediente marino più diffuso e carismatico del Mediterraneo non è più sulle rotte gastronomiche della pizza?
 
Partiamo sgombrando il campo dal pretesto più comodo: non è colpa del boom vegetale. Le pizze viste quest’anno a Parma erano cariche di carni, pulled pork, salsicce, formaggi e salse a base di uova e burro. Nessuna conversione, nessuna rivoluzione “veggie”: l’acciuga non è sparita per salvarle le pinne o ripopolare il mare.
 
Quindi, la causa va piuttosto ricercata nella dissonanza gustativa. Infatti, i gusti cambiano: lo fanno nel corso dei secoli, per ragioni storiche, economiche e culturali ma anche nel corso di una vita, per esigenze fisiologiche. Le papille gustative sono curiose: da una parte per necessità nutrizionali, dall’altra per motivi squisitamente gaudenti. Le prime ci guidano verso i nutrienti che ci assicurano la sopravvivenza; le seconde, verso ciò che rende quella vita degna di essere vissuta. Entrambe ci aiutano, in fondo, a conservarci: nel corpo, ma anche nella voglia di restare e talvolta di resistere.
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Come se non bastasse, la nostra percezione dei sapori è influenzabile: dall’umore, dalle circostanze, dai ricordi, dal desiderio ma anche dalle tendenze. Se un tempo erano aristocratici, scienziati o artisti a determinare le sorti di un piatto, oggi siamo un po’ più succubi degli algoritmi: sono loro a decidere cosa mostrarci e con quale frequenza, condizionando così anche il nostro desiderio di un certo sapore.
Del resto, anche nel food ci sono le fashion-victim: a seconda della stagione, un ingrediente è cult o out. E l’acciuga, in questo momento, sembra decisamente fuori collezione: estimata da qualche nostalgico tradizionalista o amante del vintage, ma ignorata dal resto della scena.
 
Un destino curioso, per quella che è stata - senza alcun dubbio - un vero e proprio patrimonio mediterraneo dell’umamità. Ma l’accusa più sottile - e forse la più determinante - è quella che riguarda la funzione meramente organolettica dell’acciuga, mortificata da una certa attuale ossessione per la cremosità: negli ultimi anni, l’uso smodato di latticini freschi e topping fotogenici ha alterato profondamente l’equilibrio gustativo della pizza.
 
L’abuso di burrate e stracciatelle ha smorzato il contributo sapido dell’acciuga, fino a renderla obsoleta: non perché i due ingredienti non possano coesistere - anzi, un buon pizzaiolo saprebbe farne una sinfonia - piuttosto la prima ha completamente invaso lo spazio del contrasto, della tensione, del gioco sensoriale.
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Dove prima bastava un filetto per equilibrare l’acidità del pomodoro o per sostenere una scarola con dignità, oggi si spalma una colata bianca e rassicurante. Il risultato? Pizze dai gusti più rotondi e “piacioni”, così confortevoli da risultare afone. In un contesto dove tutto deve piacere, l’acciuga finisce per sembrare fuori luogo e impegnativa: troppa personalità gastronomica da gestire.
C’è poi una dimensione meno visibile, ma tutt’altro che irrilevante, che riguarda la complicata filiera produttiva dell’acciuga, oggi sottoposta a continue tensioni, rincari e contrazioni. Un tempo ingrediente umile, la latta d’acciughe è ormai diventata un piccolo lusso.
 
Secondo i dati del settore conserve ittiche, il prezzo medio delle acciughe sott’olio è aumentato del 35% negli ultimi tre anni. Un rincaro dovuto a un insieme di fattori: la crisi dell’olio extravergine d’oliva - reso più raro e costoso da una serie di stagioni agrarie difficili, segnate da siccità, parassiti e speculazioni internazionali - si somma all’aumento generale dei costi di produzione e alla difficoltà crescente di reperire materia prima di qualità, in un contesto climatico e stagionale sempre più instabile.
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Anche i contenitori tradizionali del comparto conserviero (lattine e barattoli) hanno subito impennate significative, aggravate dal caro energia che incide sulla lavorazione e sullo stoccaggio, determinando un innalzamento dei prezzi lungo tutta la filiera.
 
A complicare ulteriormente il quadro, si aggiungono le recenti misure protezionistiche adottate dagli Stati Uniti, che hanno imposto dazi aggiuntivi del 20% sulle importazioni dall’Unione Europea. Queste tariffe colpiscono anche le esportazioni italiane di prodotti ittici, tra cui le acciughe, rendendo più onerosa la loro presenza sul mercato americano e indebolendo la competitività delle aziende italiane del settore.
 
Un dettaglio che potrebbe sembrare lontano dai forni delle pizzerie, ma che in realtà inciderà - e non poco - sui topping delle pizze di domani. Soprattutto su quelle “Italian-style” che, fuori dai confini nazionali, necessitano di importare ingredienti di qualità dall’Italia e sono quindi esposte alle oscillazioni del mercato globale. È già successo nel Regno Unito, dove l’impennata dei costi delle conserve ha fatto precipitare gli acquisti di pelati e passate, dando origine a nuove varianti di pizza senza pomodoro, reinventate per necessità più che per ispirazione.
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È probabile che fenomeni simili alimentino presto ulteriori distorsioni dell’offerta. Oggi sul mercato coesistono acciughe di eccellente qualità, ma dal prezzo superiore a quanto l’acquirente medio – diretto o indiretto – è disposto a pagare e acciughe di bassissimo livello: salatissime, molli, conservate in oli mediocri. Queste ultime, incapaci di valorizzare una pizza e qualsiasi altro piatto, finiscono per rafforzare lo stereotipo: “acciuga = sapore sbagliato”.
 
Un tempo ingrediente umile, la latta d’acciughe è ormai diventata un piccolo lusso…
 
Domani nasceranno nuovi topping, nuovi contenitori, nuove tecniche di conservazione. Intanto l’acciuga è stata silenziosamente esiliata dalle scene gastronomiche: non è al centro dei gusti, non è facile da raccontare, non è semplice da vendere.
Probabilmente resta sospesa tra l’essere troppo pregiata per le logiche del fast, troppo scomoda per i trend del comfort, troppo cara per il “pop”.
 
Eppure, proprio per questo, potrebbe tornare a essere un esempio utile: per capire dove sta andando la pizza, basterebbe guardare dove finiscono le acciughe.
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di Anna Marlena Buscemi

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