Scegliere la carne giusta

Diffondere una cultura della pizza, contribuire ad una sua conoscenza approfondita e ad una educazione del gusto significa anche lavorare affinché sia diffusa una conoscenza circa le pizzerie, intese come luogo di fruizione ma anche di studio e di messa in pratica di tecniche e creatività. Se negli ultimi anni il mondo della pizza ha visto una crescita in termini di qualità del prodotto e in termini economici, è vero che l’innalzamento del livello non ha riguardato solo farine, lievitazioni e impasti ma anche gli ingredienti, fino ad arrivare alla carta stessa. La stessa cura nella scelta dei grani più adatti si è estesa anche alle materie prime, ben oltre la base di mozzarella-fior di latte- pomodoro. In molti casi la ricerca ha finito per estendersi anche alla parte più prettamente ristorativa della pizzeria, spesso ritenuta minore e, per questo, vittima di un pregiudizio ancora diffuso che la vede come residuale, sia per l’interesse potenziale della clientela, sia – conseguentemente – per l’“investimento” compiuto su di essa. 
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Uno dei settori più interessanti, e discriminanti l’identità di una buona pizzeria, è quello della carne o meglio “delle carni”, vera cartina al tornasole per comprendere la capacità di chi gestisce il locale e di chi lavora in cucina. Il titolo di questo articolo è in questo senso assai significativo: si parla infatti di carne “giusta” e la domanda che si è portati immediatamente a fare è “in che senso?”, cioè “giusta per chi?”. Le domande sono legittime e la risposta non è una ma molte, che di fatto sono tutte una serie di declinazioni di ciò che intendiamo per “giusto”. Guardando al consumatore, il riferimento va ovviamente alla scelta di un prodotto di qualità, che magari anteponga alla varietà di tipi una scelta invece ragionata su tagli e proposte di maggior consumo, in modo tale da evitare gli sprechi. Ma qualità significa anche rispetto per le condizioni di allevamento degli animali, e conseguentemente rispetto per l’ambiente, le tradizioni e la cultura gastronomica. Si tratta insomma di allargare lo sguardo e di compiere una scelta che unisca qualità ad eticità, con la consapevolezza che questi due elementi finiranno per condizionare – in positivo ovviamente – anche il gusto. Che si parli di carni bianche o rosse, di pollame, carne suina o bovina, il riferimento principale a cui guardare è il tipo di allevamento: la possibilità degli animali di nutrirsi in modo sano, di muoversi, di vivere in un ambiente pulito, in assenza di stress, di crescere naturalmente senza l’uso di steroidi/antibiotici sono fondamentali e hanno delle ricadute sulla qualità delle carni. 
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E’ quindi preferibile evitare carni che arrivino da allevamenti intensivi. Nel caso dei bovini, in questi contesti è frequente l’uso di integratori alimentari per accelerare i tempi di crescita dell’animale, oltre ad antibiotici per evitare la diffusione di malattie. I bovini, quasi sempre maschi perché hanno tempi di ingrasso minori rispetto alle femmine, sono costretti in spazi ridotti, che aumentano le condizioni di stress e di aggressività. Ecco allora il ricorso a sostanze utili a rallentare il battito cardiaco e a calmare. L’alimentazione non è variata e privilegia granaglie, con un conseguente abbassamento del ph ruminale, che a sua volta determina l’insorgere di disturbi digestivi e abbassamento delle difese immunitarie. Un allevamento di tipo estensivo garantisce invece agli animali di poter pascolare liberamente (foraggio ed erba medica sono da privilegiare), o comunque in grandi spazi aperti recintati, privi di condizioni di stress. I tempi di accrescimento saranno ovviamente più lunghi ma permetteranno all’animale di svilupparsi al meglio, con un maggior sviluppo muscolare ed una migliore infiltrazione di grasso tra le fibre muscolari, elemento che definisce una carne tenera e saporita. Anche il trasporto al mattatoio influisce sul prodotto finale: trasporti lunghi, mattatoi affollati e poco attrezzati possono causare agitazione e ferimenti tra i capi, con conseguenze sulla consistenza e sul sapore della carne. 
 
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Secondo il Regolamento UE 1308/2013 si possono di- stinguere tre tipi di carne bovina: vitello, per animali di età inferiore a 8 mesi; vitellone, per animali di età compresa tra gli 8 e i 12 mesi; bovino adulto, per animali di età superiore ai 12 mesi. In genere per il consumo si privilegiano animali giovani: tra gli altri, la scottona, femmina che non mai partorito, con carne tenera e delicata ed il vitellone, appunto, con carne dal sapore un più intenso. Tuttavia non sono da escludere le vacche adulte, che se in ottima salute hanno carni ottime, specie se ben frollate. Passaggio fondamentale per la qualità della carne è infatti la frollatura, cioè il periodo di riposo necessario affinché essa diventi morbida. In genere dovrebbe durare almeno una dozzina di giorni a una temperatura di zero gradi e consente alla carne di sviluppare al meglio le sue caratteristiche organolettiche e sensoriali: per chi ama i tecnicismi, durante la frollatura gli enzimi naturalmente presenti nei muscoli del bovino iniziano a degradare le proteine attraverso un processo chiamato autolisi, che a sua volta conduce alla formazione di nuovi composti, tra cui un sale sodico dell’acido glutammico (cioè il glutammato), che contribuisce a rendere più intensi il sapore e l’aroma della carne.
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Per abbattere i tempi, la pratica della frollatura non sempre viene praticata, con conseguenze evidenti sulla consistenza e sul sapore della carne. Tuttavia, c’è chi – consapevole della sua importanza – la sta studiando e portando verso nuove frontiere: è il caso della carne “dry aged”, sottoposta a una frollatura che può durare fino a 40 giorni, in celle frigorifere particolari. Fondamentale, è però la scelta di carni di alta qualità provenienti da capi allevati con tempi e modalità corrette. Finora abbiamo dato per scontato di muoverci all’interno del territorio nazionale. Non è purtroppo sempre così e il tema della provenienza della carne è fondamentale. I controlli e la filiera sono indice di un prodotto sicuro, che permette di risalire all’allevamento e al produttore: il riferimento normativo è rappresentato dal Decreto Ministeriale sull’etichettatura delle carni bovine del 30 agosto 2000. L’indicazione in etichetta “Origine Italia”, per esempio, significa che gli animali sono nati, allevati e macellati nel nostro paese mentre altre diciture “allevato in”, “macellato in”, seguite dal nome del Paese danno indicazioni solo su, rispettivamente, allevamento e macellazione, ma non sull’origine.
Più nel dettaglio, per quanto riguarda la carne suina, il Paese che compare nell’etichetta indica il luogo in cui l’animale di età superiore ai 6 mesi è stato allevato negli ultimi 4 mesi (almeno) e dove è stato abbattuto. Nel caso il capo abbia un’età inferiore ai 6 mesi e pesi almeno 80 kg, allora si indica il Paese in cui è stato svolto l’allevamento una volta raggiunti i 30 Kg. Nel caso di un peso inferiore agli 80 kg, invece, si indica il luogo in cui è stato svolto l’intero allevamento. Per i volatili, il periodo ultimo di allevamento deve essere stato di almeno 1 mese. Nel caso di età inferiore a questo lasso di tempo, nel Paese indicato deve aver avuto luogo l’intero allevamento dopo che l’animale è stato immesso all’ingrasso. 
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Quanto scritto su filiera e allevamento si applica anche pollame, settore che più di altri ha visto un incremento delle modalità di allevamento industriale. Anche in questo caso, insomma, scegliere allevamenti estensivi, con alimentazione e spazi adeguati per l’animale, è cruciale per poter proporre un prodotto di qualità. 
A scontare la fama degli allevamenti industriali è stata anche la carne di maiale, demonizzata, in aggiunta, anche perché ritenuta grassa e più ricca di colesterolo. Nulla di più sbagliato: la carne di maiale presenta valori nutrizionali che variano a seconda dei tagli e della lavorazione (insaccati). Arista e lombo, per esempio, sono tagli magri e in cucina rappresentano un’alternativa alle più note e abusate costine. 
Vale anche per i suini quanto detto in precedenza: la tradizione e le varietà di razze presenti in Italia consentono di spaziare tra sapori, consistenze e rese in cucina amplissime. Come per bovini e pollame, fondamentale per i suini è l’allevamento estensivo. Sono sempre più, infatti, lungo tutto il territorio nazionale, gli allevatori che hanno recuperato razze autoctone, dai tratti fisici e morfologici simili a quelli delle specie selvatiche e spesso legate alla norcineria tradizionale d’eccellenza. Fra queste, Cinta senese, Nero calabrese, Nero casertano, Nero dei Nebrodi, Mora romagnola e Nero di Parma. 
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Caterina Vianello

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