Homo dieteticus: le tendenze del cibo dopo la pandemia.

In questi due anni ne abbiamo visti di cotti e di crudi. Ma anche di stracotti e soufflè. Parliamo di cibo, ovviamente. La sospensione del tempo avvenuta a febbraio 2020 ci ha traslato infatti immediatamente dalla condizione di individui in costante lotta con le lancette dell’orologio a quella di persone che, scegliendo la cucina quale surrogato dell’ufficio, hanno dovuto iniziare a fare i conti con l’impietosa lancetta della bilancia.
 
Da critici gastronomici improvvisati ci siamo trasformati dunque, più o meno tutti, in cuochi provetti, rispolverando ricette di famiglia e tuffandoci tra i portali di gastronomia contemporanea. Le protagoniste e i protagonisti delle cucine dei ristoranti hanno trasferito sul web buona parte dei loro saperi e le giornate improvvisamente dilatate hanno reso tutti i consumatori un po’ più “slow”.
 
Nelle ore in cui scrivo queste righe sono molte le voci della politica e della scienza che in Italia e nel resto del mondo fanno a gara per annunciare la fine della pandemia: a fine marzo potremmo addirittura togliere le mascherine nei luoghi al chiuso e dopo due anni esatti (un anno in meno di quelli serviti a inizio Novecento per debellare l’epidemia Spagnola) dovremmo tornare a vivere in un mondo che avevamo quasi dimenticato. Come ci sentiremo? E cosa mangeremo? Per rispondere a queste domande, ho chiesto aiuto al professor Marino Niola.
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Marino Niola è docente di Antropologia dei Simboli presso l’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e di Storia della gastronomia nei Paesi dell’area mediterranea all’Università “Federico II”. Editorialista per La Repubblica, dirige con Elisabetta Moro, il MedEatResearch – Centro di ricerche sociali sulla Dieta Mediterranea e il Museo Virtuale della Dieta Mediterranea (www.mediterraneandietvm. com). Niola è inoltre autore di numerose ricerche sulle culture del cibo, tra cui particolarmente significativa quella presentata nel libro Homo dieteticus.

Professor Niola, nel 2015 lei ha parlato per la prima volta dell’homo dieteticus: chi è costui e come è cambiato negli ultimi anni?

"L’homo dieteticus è il figlio spaventato dell’homo oeconomicus, il quale – a dispetto del nostro – era convinto che tutto sarebbe andato meglio. L’homo dieteticus ritiene invece particolarmente incerto il futuro e quindi fa del cibo lo specchio del suo rapporto con la realtà, della sua paura. Sostanzialmente, l’homo dieteticus di oggi resta nei lineamenti fondamentali lo stesso ma, visti gli ultimi anni, i suoi timori sono maggiormente accresciuti".
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È questo timore a renderci oggi così particolarmente attratti dai prodotti che esibiscono marchi di certificazione, come le Dop e le Igp?

"La più grande domanda di oggi nel mondo è la domanda di sicurezza. La sicurezza è la merce più domandata e più offerta sui mercati sociali, su quello della politica e su quello della salute. La domanda aumenta perchè l’insicurezza dilaga. Non è solo insicurezza fisica ma anche incertezza del domani, di come sarà la nostra vita, quella dei nostri figli e delle persone a noi care. Per questo, noi cerchiamo di placare questa grande insicurezza, dai tanti volti, attraverso una risposta sicuritaria. E niente è più sicuro di una certificazione.
 
La parola stessa “tracciabilità” ci dà l’illusione di rendere trasparente la realtà e di poter vedere come è fatta ogni cosa dal di dentro. Se ci pensiamo bene, è un meccanismo infantile perchè ci comportiamo allo stesso modo di quando da bambini smontavamo il giocattolo appena ricevuto per vedere come fosse fatto dentro".

In Homo dieteticus lei sostiene che oggi ci troviamo in balia delle “tribù alimentari”: cosa intende?

"Le tribù si combattono. Il meccanismo tribale è infatti un meccanismo di fronteggiamento e di contrapposizione ed è solo quando le tribù si confederano che nasce una società. Il tribalismo è simbolo di insicurezza ed anche quello contemporaneo delle tribù alimentari lo è. Oggi dunque chiedo al cibo quella sicurezza che prima chiedevo alla religione".
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E faccio così del cibo la mia religione.

"Certo, ma una religione integralista perchè rifiuto “il cibo degli altri” e, così facendo, finisco per isolarmi. Il cibo che, per natura, è condivisione diventa divisione".

In questi anni sta aumentando a dismisura la domanda dei cibi halal e kasher, sacri per i Musulmani e gli Ebrei: a cosa attribuisce questa ricerca di cibo “sacro”?

"Halal e Kasher hanno come fonte un’autorità religiosa. Ci fidiamo più dell’autorità religiosa che dell’authority alimentare. Il mercato dei cibi halal e kasher è in crescita esponenziale dovunque ma in America già nel 2009 il 30% dei prodotti venduti nei supermercati era kasher. Ora per  gli Ebrei – coloro per cui nasce il cibo kasher – sono meno del 2% della popolazione degli Stati Uniti, quindi è evidente che ad acquistare questo cibo sono in larga parte persone che lo fanno non per motivi religiosi ma perchè si sentono maggiormente rassicurati, perchè hanno l’impressione di mangiare "come Dio comanda"."
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A fine marzo la fine dello stato di emergenza sanitaria in Italia dovrebbe sancire formalmente il cambio di rotta se non la fine della pandemia: cosa accadràalle nostre tendenze alimentari?

"Costruiremo una terza via tra lo sbraco alimentare di prima e l’attenzione salutista di oggi. In questi due anni, la tradizione è tornata molto in voga perchè, nei momenti di crisi, la tradizione rassicura, viene da lontano. Sarà cos  sempre di più: avremo meno tataki e più spaghetti. Ed è molto probabile che le persone saranno meno disposte ad assecondare esperimenti stellati e stellari a favore invece del recupero della tradizione".
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