La cucina aperta

Nella ristorazione di qualità c'è spazio per ogni tendenza e ogni tecnologia, ma deve sempre esserci uno stretto rapporto cucina-cultura-territorio

Penso che fra i lettori di questa rivista - pochissimi fra i più anziani e tra i più giovani ancor meno - sappiano che la “Nouvelle Cuisine” è nata ufficialmente in Francia nel febbraio del 1973, padrino e mallevadore il giornalista Henry Gault, gastronomo ed editore con Cristian Millau della guida gastronomica “GaultMillau” (da cui derivò anche la Guida dell’Espresso) e, undici anni dopo, il 9 febbraio 1984 come ha recentemente ricordato Davide Paolini (Il crepuscolo degli chef, Longanesi, 2016), lo stesso Gault ne stilò l’atti di morte.
E qui sorge una domanda che mi sembra d’obbligo: perché fu steso l’atto di morte d’una cucina che aveva alleggerito i piatti dalle troppe salse pesanti e dai sughi eccessivamente grassi, realizzato cotture più funzionali agli alimenti rendendoli più gustosi e più digeribili, preservandone i principi nutritivi, valorizzando nel contempo l’aspetto estetico dei piatti?
La risposta la si trova nell’evoluzione  promossa negli anni ’70 e ’80 proprio dalla Nouvelle Cuisine (in particolare con gli chef Pierre Troisgros, Michel Guérard, Roger Vergé, Joël Robuchon, Alain Ducasse, George Blanc e, naturalmente, Paul Bocuse), la quale, mandando in soffitta la “Grande Cucina Internazionale”, nata in Francia sul finire dell’800, in linea con lo stile della Belle Époque e, soprattutto, con le esigenze dei ricconi del tempo, aveva sconvolto in modo radicale la cucina ricco-borghese europea, aprendo così nuove strade alla ricerca e all’inventiva dei cuochi.
Una delle prime novità, successive al decennio della Nouvelle Cuisine, fu, come ricorda ancora Paolini, la “Fusion cuisine”, nata oltreoceano, così definita da Henry Gault: “Quel tipo di cucina che combina in maniera esplicita elementi associati a diverse tradizioni culinarie per produrre menu o piatti complessi non riconducibili ad alcuna tradizione culinaria precisa”.
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Negli USA e nel lontano Oriente

Il fenomeno era già diffuso sia negli USA che in Australia, dove cuochi delle più diverse provenienze, pur lavorando in cucina con prodotti locali, li elaboravano seguendo le tecniche di altri Paesi soprattutto orientali (Cina, Giappone, Malesia, ecc.), ma anche europei.
Tutto ciò trova la sua causa in un’esplosione fra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso d’un imprevisto ma crescente interesse per la gastronomia, divenuta in quegli anni di moda, quindi, ci fu da parte di molti cuochi di diversi Paesi una crescente ricerca e attenzione alle novità tecnologiche e gastronomiche che andavano modificando le cucine borghesi di molti Paesi.
Se le culture gastronomiche cinese, giapponese e malese andavano influenzando un po’ tutte le cucine orientali, negli USA si andava imponendo una cucina denominata “Tex-Mex”, come dire una “fusione” tra la cucina tradizionale texana con quella messicana che in breve tempo ha conquistato tutto il Nord America.
In questo secondo caso la “fusione” ha una sua precisa spiegazione. La “New American Cuisine”, scrive Davide Paolini, “è una conseguenza naturale del melting pot dei nativi e delle diverse provenienze delle genti che hanno trovato in quel Paese una nuova vita”. E in questo “calderone” gastronomico statunitense non mancano né la cucina francese o di ispirazione francese né quella italiana o ispirata alla cucina italiana e ai suoi prodotti (in gran parte taroccati). Bastava che in qualche città degli USA arrivasse un bravo cuoco dall’estero e portasse la cucina della sua patria d’origine, in breve tempo quei piatti, se piacevano e richiamano clienti, come spesso è successo, si diffondevano in altri locali e nelle case dei clienti stessi ed ecco intrecciarsi, confondersi, unirsi tradizioni dalle più disparate provenienze dando vita a una nuova cucina, quella “fusion” che ha, come riconobbe Henry Gault, preso il posto della Nouvelle Cuisine francese.

In Italia

La stessa cosa è successa anche in Italia, con le migrazioni da una regione all’altra. Il pomodoro, ad esempio, non era conosciuto al Nord fino alla metà del secolo scorso dove i piatti tradizionali erano quasi esclusivamente in bianco (pochi usavano il concentrato di pomodoro, poco diffuso e pochissimo conosciuto), poi, dagli anni ’50, con l’arrivo di tanti cittadini del Sud chiamati a lavorare nel triangolo industriale (Torino-Milano-Genova) e con decine di migliaia di ragazzi mandati a compiere il servizio militare nelle caserme del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, il pomodoro e la sua salsa sono entrati in molti piatti e il color rosso ha cominciato a dilagare. Ed ecco in pochi anni apparire nelle regioni del Nord Italia una cucina prima sconosciuta, essendosi quella locale mescolata a quella degli operai e dei militari di leva provenienti dal Sud. E, con loro, al Nord è arrivata anche la pizza, prima sconosciuta.
Ma l’esempio più significativo è a Venezia, città nella quale nel marzo del 1516 è stato istituito il Ghetto degli Ebrei, dopo che gli Ebrei erano in città e nella vicina terraferma già da alcuni secoli. Ebbene, oggi è quasi impossibile capire se i piatti che gli Ebrei veneziani preparano in casa loro appartengono alla loro tradizione kosher o sono stati elaborati adottandoli dalla tradizione veneziana, fondendosi con essa e viceversa (perché anche i veneziani hanno attinto a piene mani alla cucina kosher). Dunque il ricordato melting pot e la cucina fusion sono presenti in Italia praticamente da sempre, anche se sono riemersi con più evidenza negli ultimi decenni.

Da El Bulli alla cucina molecolare

Ricordava un giorno Moreno Cedroni che la sua è cucina fusion, impiegando tecniche ispirate anche a Ferran Adrià e alla cucina giapponese, pur usando in cucina prodotti locali, come l’olio evo delle Marche e il pesce dell’Adriatico che arriva proprio alle porte del suo ristorante di Senigallia, la ben nota Madonnina del Pescatore.
In questa linea ha fatto scuola dal 1984 al 2010 Ferran Adrià, il celebre chef de El Bulli a Roses sulla Costa Brava in Spagna, frequentato in quegli anni da numerosi giovani cuochi provenienti da ogni parte del mondo e non va dimenticato che Adrià ha lasciato un segno forte nella ristorazione anche attuale.
Intanto nel 1992 viene lanciata (ad Erice in Sicilia) dallo scienziato inglese Nicholas Kurti e proseguita poi dal francese Hervè This una “nuova” cucina, la “cucina molecolare”, entrata in Italia dieci anni dopo, nel 2002 con lo chef italiano Ettore Bocchia, che la elaborò in collaborazione con il sico Davide Cassi dell’Università di Parma, quindi la propose e continua a farlo nel ristorante della maestosa Villa Serbelloni di Bellagio, lì dove si incontrano i due rami del lago di Como.

I percorsi della gastronomia

Questo nostro lungo ragionamento ha una spiegazione ben precisa. La cucina di ogni Paese è in perenne necessaria evoluzione e assorbe, se intelligente, quanto di buono raccoglie nel suo cammino e resta cucina di valore ed espressione di cultura se non tradisce il luogo – la tradizione, la cultura, i prodotti - in cui viene realizzata. Questa cucina, seria e culturalmente robusta, che non interrompe il filo della storia e della tradizione, pur rinnovandosi e restando in sintonia coi tempi che cambiano, è capace di imporsi per il proprio valore intrinseco, come sta imponendosi nel mondo la cucina italiana che non ignora l’alto valore dei prodotti agroalimentari italiani e li sa elaborare tenendo conto delle tecnologie più avanzate e dei contributi internazionali più intelligenti.
Lo ricordiamo ai nostri lettori, perché questa è la strada da seguire per conservare all’Italia il primato gastronomico, faticosamente riconquistato nella seconda metà del secolo scorso.
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di Nives Piva

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