Green washing o green economy ?

Il lato oscuro del green
Meditando su quale fosse l’approccio migliore alla stesura di questo articolo, ho esplorato diverse possibilità: positivo, negativo, possibilista, complottista...

Ogni strada avrebbe seguito un percorso che in parte, cercando comunque un approccio virtuoso, avrebbe portato a parlare delle medesime aziende, magari elencate in ordine diverso.

Ho deciso di cominciare con la chiarezza dei concetti (e degli esempi) di Green Economy e Greenwashing applicati al mondo del food&beverage e riconducibili, infine, alla ristorazione. Antepongo il lato oscuro del green ma non per alimentare sospetti e sfiducia! Vorrei che questo primo trafiletto fosse semplicemente considerato la parte nella quale illustrerò il modo peggiore di approcciarvi. Prendendo a prestito le parole che ci hanno insegnato sin da bambini: “prima il dovere e poi il piacere”! Il Greenwashing rappresenta sicuramente ciò di cui molte grandi aziende dovrebbero far ammenda: utilizzare uno scopo nobile per migliorare la propria immagine o - peggio ancora - i propri profitti non è un approccio dal quale trarrei esempio ma non sta a me esprimere il giudizio di quanto accada nel mondo dell’industria. Nello specifico, per fare un esempio di cui esiste certezza nelle fonti, cito l’indagine “Unilever’s Plastic Playbook” (A Reuters Special Report) che a fine giugno 2022 ha fatto scalpore perché ha coinvolto la nota multinazionale Unilever, produttrice di prodotti di consumo food e non food in un intricato sistema di ricatto.
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Pare che, per quanto riguarda i comparti food e saponi/detersivi, i giornalisti della Reuters abbiano portato alla ribalta la notizia che Unilever, impegnata pubblicamente nella riduzione dell’impatto ambientale delle sue confezioni più inquinanti, abbia usato la sua influenza (a livello locale) per fare pressioni su politici e commissioni affinché non passassero alcune leggi di tutela ambientale. Queste leggi avrebbero avuto un impatto economico importante sul profitto della multinazionale, con sanzioni e divieti di com- mercializzazione, proprio verso le linee di prodotto che l’azienda sta eliminando nel resto del mondo per ridurre l’impatto ambientale. Purtroppo, in alcune nazioni in via di sviluppo, queste confezioni singole sono proprio quelle maggiormente profittevoli in quanto si vendono più pezzi ad un minor costo... ma al costo ambientale di essere le più inquinanti! Questo esempio ci mostra come anche l’azienda che pubblicamente sembri la più attenta sul tema “green”, può nascondere un “dark side” dal quale si evincono tutt’altri scopi. Purtroppo, un sistema tanto comune quanto ignorato perché avrebbe bisogno di spiegazioni che arrivino al cuore di qualcosa che con il cuore non ha nulla da spartire... Qualora voleste approfondire, l’indagine si trova in libera lettura sul sito di Reuters. 

Le aziende che salvano il mondo

Passiamo ora alla Green Economy, cercando esempi virtuosi che non siano la “solita” facciata di qualcos’altro ma storie coraggiose di aziende che cercano di “salvare il mondo” con fatti ed impegno quotidiano. Un paio di casi italiani possono essere codificati come aziende che da tempo perseguono l’obiettivo di “salvare il mondo” in modo sostenibile e profittevole e, ovviamente, sono entrambi aperti a collaborazioni e partecipazioni esterne!
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3Bee, startup nata nel 2017, vuole sostenere l’ecosistema delle api e degli apicoltori italiani attraverso un sistema integrato a bassissimo impatto ambientale: per gli apicoltori ha messo a sistema l’innovazione tecnologica in grado di monitorare lo stato di salute e performance nel “raccolto”. Per i privati, offre la possibilità di “affittare” un alveare, seguirlo online e ricevere direttamente a casa il miele prodotto dal proprio alveare, interessante soprattutto per coinvolgere anche i bambini. In ultimo, 3Bee offre l’opportunità alle aziende più grandi di integrare progetti corporate che abbiano una rilevanza sociale e responsabile per introdurre azioni impattanti per il benessere del territorio e della natura. 
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Di stampo green, ma improntato sulla produttività, il progetto di Biova Project sta portando da Torino una interessante innovazione in un settore in costante fermento: quello della birra! L’idea, tanto semplice, quanto geniale, prevede che l’azienda recuperi gli avanzi del pane invenduto dai partner del progetto e che attraverso un processo produttivo trasformi quelli che sarebbero stati scarti in ottima birra! Questo processo, recuperato dall’antichità, ci riporta direttamente all’evoluzione storica della birra. Pare, infatti, che la “prima” birra sia nata in epoca sumera proprio per la fermentazione di pane ed acqua in un otre mal sigillato. Biova ha cominciato la sua attività nel 2019 ed ha proposto un reintegro circolare del pane come materia prima: in ogni cotta di birra si impiegano circa 100 kg di pane raffermo, che riduce l’esigenza di malto del 30% con un’importante ricaduta economica e green, riducendo l’impatto ambientale del prodotto finale sulla materia prima coltivata.
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Domandandomi come si potesse applicare un approccio green alla ristorazione, oltre agli esempi già citati lo scorso anno nel numero di “Pizza e Pasta Italiana” dedicato alla lotta contro lo spreco alimentare, mi sono imbattuto in un’intervista dell’ottobre 2022 ad Heinz Beck, chef del noto ristorante tri stellato Michelin “La Pergola”, a Roma. Interessante come il suo approccio al green sia di stampo organizzativo, sociale ed economico. Cito testualmente: "Nel nostro ristorante sappiamo sempre quanti clienti abbiamo, ci organizziamo di conseguenza e non c’è spreco. Abbiamo sempre lavorato in modo sostenibile anche per una questione di responsabilità sociale. Quindici anni fa ho iniziato ad applicare l’economia circolare nella preparazione dei piatti e, a distanza di tanti anni, oggi usiamo prodotti da agricoltura sostenibile; il 90% di frutta e verdura arriva da agricoltura biodinamica e rigenerativa”
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Prosegue Heinz Beck: “Ordiniamo non a cassette, ma a pezzi o a chili, perciò lo spreco è quasi zero. Adesso abbiamo messo a punto un nuovo sistema per non sprecare la materia prima. Ad esempio, arriva una verza, viene subito sezionata e le varie parti sono riposte in contenitori diversi in appositi spazi nel frigorifero. In questo modo i ragazzi sanno sempre dove prendere la parte della verza più adatta alla preparazione di un certo piatto. Questo evita anche lo spreco dovuto alla disattenzione che fa usare il cuore quando vanno benissimo anche le foglie esterne. Ma soprattutto si evita di usare il cuore e buttare il resto. Se devi gestire un’attività che deve portare risultati economici - oltre che di qualità - devi stare attento a tutto ciò che potrebbe essere un costo; ci sono costi che non sono evitabili come l’energia, il personale, le materie prime ma lo spreco è un costo evitabile”. Mai come in questi mesi abbiamo vissuto le conseguenze degli eventi straordinari di questi anni: pandemia e guerra ci hanno aperto gli occhi su quanto ogni singolo gesto, scelta consapevole, investimento in innovazione, possa essere importante per la sopravvivenza delle attività ma anche del loro impatto sul mondo a 360°. Se cercassimo di curare con la massima attenzione i dettagli ed i processi produttivi, sono convinto che l’impatto collettivo della ristorazione e dell’ospitalità potrebbe avere un’impronta sempre più green e sostenibile anche economicamente: nel nostro piccolo potremmo provare a cambiare il mondo.
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di Domenico Maria Jacobone

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