Si torna in tavola

Una delle immagini che porterò dentro di questi giorni è quella di Napoli, la mia città. Lunedì 18 maggio alle 8,59 i commercianti della centralissima via Toledo hanno urlato, fuori dai loro negozi, un liberatorio countdown esplodendo poi in un applauso comunitario prima di riaprire le loro botteghe. Poco distante, in una via a prevalente percorrenza turistica, Via San Gregorio Armeno, oggi drammaticamente vuota, andava invece in scena la protesta silenziosa di chi ha visto crollare a picco ogni previsione di entrata per il 2020.
 
È questo lo scenario diffuso dell’Italia al tempo della pandemia, un Paese lacerato da una crisi sanitaria che si è manifestata qui più che in molte altre parti del globo ma anche da una crisi economica che, a causa dell’assenza pressoché totale di spostamenti, sta minando alla base buona parte del Pil del nostro Paese fondato sul turismo e sul tempo libero, prima ancora che sul lavoro. 
 
Una recente indagine svolta dal Codacons ha messo in luce come alla riapertura delle attività si sia verificato un prevedibile rincaro dei prezzi che costa alle famiglie 536 euro in più su base annua. Si tratta – ha affermato il Codacons – di “rincari giustificati dalle misure igieniche e di distanziamento e che costringono gli esercenti a rincarare la dose sulle consumazioni al tavolo”. L’Istat in aprile aveva già segnalato un aumento medio dei prezzi del cibo del 2,8% con un picco raggiunto a Caltanissetta (+5,7%) e Trieste (+5,3%), seguite da Palermo (+4,8%) e che vede invece come esempi virtuosi Siena (+0,6%), Macerata (+0,9%), Arezzo e Pistoia (+1,4%).
 
C’era tuttavia da aspettarselo che il rispetto delle regole del distanziamento fisico potesse causare una drastica riduzione del numero dei clienti e dei relativi guadagni. Le scelte del mondo dell’agroalimentare ora più che mai non sono facili. Bisogna sapersi smarcare dalle false chimere del “risparmio facile” ottenuto con materie prime qualitativamente meno valide ed eticamente meno pulite (ossia meno rispettose del lavoro di chi le produce) oppure rinventarsi.
 
Il movimento internazionale Slow Food si sta interrogando in questo momento, come fa da oltre trent’anni, sul come ridare dignità alla filiera “colta”, alle piccole produzioni virtuose. In un’intervista rilasciata alla rubrica social del progetto Slow Food in Azione a metà maggio, l’architetto e urbanista Stefano Boeri ha così risposto alle sollecitazioni sul tema: “La gran parte dei prodotti Dop sono generati nei piccoli centri e questo deve farci pensare che la qualità viene espressa spesso da nuclei di urbanità che hanno un rapporto diretto con la campagna. Il tema è capire come comunità di agricoltori e contadini possano diventare una parte fondamentale all’interno del ciclo dell’alimentazione. Possiamo per esempio pensare a una grande distribuzione che si faccia carico, in modo non speculativo, di un sistema di produttori di piccole dimensioni e grande qualità”.
 
La GDO che sposa le materie prime di qualità sarebbe sicuramente un passo avanti ma come invogliarla a farlo? La Vice Presidente della Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati, Susanna Cenni, ha commentato così il Decreto Rilancio ai microfoni della trasmissione Slow Food on Air: “Questa crisi pandemica ha cambiato moltissime cose nelle nostre vite e nei fondamentali economici. Ha rimesso in fila alcune priorità con grande nettezza: la salute, l’alimentazione, la cura.
 
Le relazioni attorno al cibo, alla terra, alle persone, possono essere uno dei canali della nostra ricostruzione. Dobbiamo lavorare affinché questo cambiamento si realizzi. Senza rete, senza relazioni, senza la capacità di strutturare filiere solide e trasparenti, non si raggiungono risultati. La speranza è che questi aiuti non vadano alle solite grandi aziende strutturate, ma coinvolgano tutti a partire proprio da quelle piccole realtà locali che portano avanti, da anni, una produzione da manuale”.
 
Un sistema di aiuti, dunque, che tenga conto in primo luogo delle piccole produzioni agroalimentari virtuose. Solo così – a quanto pare – sarà meno difficile per il mondo della ristorazione non rinunciare a “salvare la filiera”.
 
Un altro dei nodi fondamentali per la rimessa in moto economica del Paese è però rappresentato dal problema degli spazi. Il distanziamento fisico impone spazi più ampi. O comunque ripensati. È ancora Boeri a sottolineare che “da un punto di vista fisico gli spazi ci sono già. Dobbiamo ripensarne l’uso. In questa emergenza, molti di noi hanno riscoperto i piccoli negozi, le botteghe, un’idea diversa di qualità.
 
In futuro, se permarranno requisiti di distanziamento, dovremo usare anche gli spazi aperti: i negozi potrebbero avere bisogno di dehors, i marciapiedi essere occupati anche dal macellaio, dal fioraio, dal fruttivendolo e non solo dal barista. Immaginiamo marciapiedi estesi sulle strade, parcheggi gradualmente eliminati, strade ripensate per biciclette e per auto elettriche. Pensiamo a città diverse, a un’intera dimensione di città da pensare”.
 
Sembra andare in questa direzione la scelta del Sindaco di Palazzolo Acreide, Salvatore Gallo, che ha deciso di trasformare la città in un “ristorante a cielo aperto” concedendo suolo pubblico gratis a bar, ristoranti, gelaterie e pasticcerie nella stagione estiva. La misura adottata ha il dichiarato intento di andare incontro agli esercenti locali e contenere i danni che soprattutto le aziende più piccole hanno subito a partire dal momento del lockdown. La decisione del comune siciliano ha fatto scuola sia nelle città vicine sia nei grandi centri, aprendo infatti alle emulazioni di Milano e Bergamo in primis ma anche di Livorno, Parma e molti altri. L’estate italiana si annuncia dunque un’estate all’aperto, tra la paura del contagio e la voglia di esorcizzarla.
 
Si riuscirà però a garantire anche il rispetto dei principi del Buono (ossia ciò che dà piacere), del Pulito (rispettoso delle norme e dell’ambiente) e del Giusto (rispettoso del lavoro dei produttori e del personale della ristorazione), come piace a Slow Food? Come gestire l’accoglienza “slow” in questo periodo in cui l’uso obbligatorio delle mascherine nasconde i volti e rende i dialoghi più faticosi? Renato Bosco, uno dei maestri indiscussi della pizza italiana che opera in Veneto e Lombardia, due Regioni particolarmente colpite dalla crisi sanitaria, sostiene: “Col mio staff abbiamo riaperto quasi a fine lockdown il take away, con particolari attenzioni non solo alle normative in vigore per l'emergenza, ma anche prevedendo che il futuro della ristorazione sicuramente sarà un nuovo scenario tutto da scrivere. Ci stiamo muovendo anche per realizzare corsi online in diretta, stiamo scegliendo la piattaforma migliore che possa garantire un buon servizio al fine di renderli interattivi”.
 
E in merito alle scelte da compiere nella gestione del servizio, Renato Bosco afferma: “Sicuramente la ristorazione di qualità avrà maggiore difficoltà a riprendere, se pensiamo che il servizio al tavolo dovrà avere misure di sicurezza totalmente diverse dalle attuali con distanze tra tavoli di 2 metri. Sarà sicuramente una ripresa difficoltosa. Non credo si tratti solo di reinventarsi un pricing ma di rinnovare la proposta con meccanismi totalmente diversi”.
 
Soluzioni che nel rispetto delle norme non ledano alla filosofia del movimento Slow Food sono state prese anche dall’Osteria che sorge nel luogo in cui il movimento fondato da Carlo Petrini vide i natali: l’Osteria del Boccondivino di Bra. Per la prima volta in 36 anni l’Osteria ha deciso di aprirsi all’asporto a partire da inizio maggio e di continuare l’esperienza anche ora che i ristoranti potranno di nuovo accogliere i loro avventori.
 
Firmino Buttignol, presidente della cooperativa “I Tarocchi” che gestisce il locale di Bra e la “gemella” Osteria dell’Arco di Alba, ci spiega che ad Alba la solidarietà si è manifestata sin dal condominio dove l’Osteria ha sede. Lì infatti i residenti hanno autorizzato immediatamente il locale a usufruire dello spazio esterno per la realizzazione del dehors, consentendo così di recuperare alcuni dei posti persi all’interno. “A Bra forse – spiega Firmino – riusciamo a perdere solo un posto su 5 mentre ad Alba rischiamo di perdere un posto su 3”. E come gestire invece la sicurezza salvaguardando gli sprechi di risorse?
 
Firmino non ha dubbi: “No alle porzioni in bustine preconfezionate monodose. Preferiamo grattugiare noi il Parmigiano Reggiano e servirlo in quantità ridotte in dei vasetti che poi sanifichiamo, gettando quello che eventualmente avanza”. Stesso discorso per il pane: “Mettiamo via i cestini di pane e per ogni commensale prevediamo dei sacchetti monouso con pane di Bra e grissini del nostro consueto panificio”. Il Boccondivino poi era già abituato, come tutte le Osterie Slow Food, a valorizzare verbalmente il menù ma ora anziché portarne una copia cartacea sui tavoli, si allestirà su ciascun tavolo un espositore in plexiglass con dentro due facciate del menu, il tutto stampato su un unico foglio, così da consentire a tutti i commensali di leggerlo senza toccarlo, neppure per girarlo. Quando il tavolo completa le sue scelte, il menù viene portato via e sanificato, pronto per un nuovo uso. Tante dunque le novità, anche perché il lavoro per valorizzare la filosofia dell’accoglienza “slow” va chiaramente anche oltre le norme: “Non potremmo fare diversamente – aggiunge Firmino – perché chi arriva da noi si aspetta un certo tipo di servizio, di accoglienza, di cucina e non possiamo deluderlo proprio ora, dopo due mesi di chiusura totale”.
 
Cosa si aspetta dalla riapertura la più antica Osteria Slow Food? “Temo non partiremo subito col sold out ma spero di sbagliarmi, così da potere richiamare presto al lavoro tutti i soci della cooperativa ancora in cassa integrazione”.
 
È proprio il caso di dire: buon lavoro!
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di Antonio Puzzi

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