PADELLINO

Le parole del 2024

Padellino, tegamino o ruoto?
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Sì, è chiaro a tutti che si tratta di tipologie diverse ma queste sono tutte accomunate dal fatto che da qualche anno è diventato di moda offrire in pizzeria, oltre alla pizza classica, napoletana o comunque cotta al mattone, anche un “padellino” che profuma ugualmente di storia e cultura. La cosa in sé non è di certo sorprendente, se si pensa che, per la stragrande maggioranza degli Italiani, il primo approccio con la pizza è proprio con questa tipologia. Diventa però particolarmente rilevante questo ingresso in pizzeria se ci voltiamo indietro e ci accorgiamo che, nel primo decennio del XXI secolo, questa tecnica era praticamente a rischio d’estinzione.
 

UN PO’ DI STORIA
La pizza al padellino viene definita da più parti come un’invenzione torinese, diversificazione di un prodotto dalla storia millenaria come la farinata, un impasto di farina di ceci cotto in un tegame e, solo in tempi recenti, arricchito da qualche condimento.  Leggenda narra che i venditori di farina-ta e i pizzaioli più intraprendenti (questi ultimi forse emigrati dal sud dell’Italia, soprattutto - si dice - da Calabria e Sardegna), per offrire alla propria clientela un’alternativa per il pranzo durante la pausa dal lavoro in fabbrica, avessero deciso - negli anni ’20 del Novecento - di proporre una pizza da cuocere in un tegame (il forno in cui si cuoceva la farinata aveva temperature troppo alte per la pizza al mattone e ne avrebbe bruciato il fondo), piccola, composta e soprattutto prelavorata che riducesse di molto i tempi d’attesa. Sarebbe questo il motivo del suo successo e, per estensione, del declino a cui si è assistito dagli anni ’90 del Novecento, quando è stata sdoganata la “schiscetta” anche per gli impiegati e i dirigenti di un’azienda, interessati ad assecondare senza interruzioni un preciso regime dietetico. A far tornare in auge il tegamino sono stati però quei pizzaioli più giovani che, dalla seconda decade del nostro secolo, hanno deciso di dare nuova vita e dignità a un prodotto ritenuto di scarsa qualità. 
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LA TECNICA DI PREPARAZIONE TRA IERI E OGGI
La prima versione della pizza al padellino prevedeva che l’impasto fosse steso in un tegamino (debitamente unto) del diametro compreso tra i 20 e i 25 cm la sera precedente il servizio. Lo stesso veniva preparato con base bianca (mozzarella fior di latte) o base rossa (pomodoro) e cotto per circa il 70%. Al momento del servizio, si aggiungevano gli ingredienti richiesti dal cliente e si portava a termine la cottura. Nella versione contemporanea, si è quasi del tutto abolita la precottura, preferendo lasciar riposare l’impasto fino al momento del servizio. In questo modo, durante questa fase di riposo che può durare anche fino a 24 ore, l’impasto giova di una seconda lievitazione che rende il prodotto particolarmente soffice. L’effetto dell’olio sul fondo pro-duce sull’impasto a contatto col tegamino oliato un effetto localizzato di frittura che rende la pizza morbida e friabile al tempo stesso, unendo la sofficità e lo spessore della focaccia alla croccantezza della pizza al mattone.
 

UNA RINASCITA CHE UNISCE LO STIVALE
Senza particolare timore di smentita, possiamo dire che la rinascita del padellino sia avvenuta pressoché in contemporanea tanto nel nord quanto nel sud dello Stivale. A sud, infatti, la pizza nel ruoto – tipica delle aree rurali e della tradizione familiare – ha trovato ospitalità in pizzeria già nel 2015 ad opera di un geniale pizzaiolo e imprenditore qual è Pasqualino Rossi, titolare della pizzeria Élite di Alvignano, nell’alto Casertano. In quell’anno, Pasqualino organizza anche il “Ruoto Day” e riesce a ridare vita a una emulazione che porterà poi, in tempi più recenti, a tantissime riletture del prodotto, a partire dalle tante pizze con doppia (o tripla cottura), il cui passaggio finale prevede l’inserimento del prodotto in un tegamino messo poi al forno. Nello stesso periodo, a Torino si cerca di riportare in auge l’antica gloria ed ecco che “Il padellino” a Corso Vinzaglio, “Dessì” in via Madama Cristina o “Da Michele 1922” in piazza Vittorio proclamano l’orgoglio sabaudo, promuovendo il loro prodotto di punta. 
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QUALE FUTURO?
Lo abbiamo già anticipato nel paragrafo precedente: la riscoperta della cottura al tegamino è giovata anche alle tante sperimentazioni contemporanee dei pizzaioli. Ne citiamo una tra tutte: la “Montanara Starita”, proposta in tutte le sue sedi, che prevede che la classica pizza fritta condita con sugo di pomodoro subisca un passaggio in forno (rigorosamente nel tegamino) prima di essere servita. E, mentre abbiamo appena festeggiato in sordina i primi cento anni di vita di questa ricetta, ci auguriamo che nel 2024 il padellino e il ruoto entrino a far parte anche di quella comunicazione enogastronomica che spesso li ha snobbati, riducendoli a “note di colore”.
 

E SE ARRIVASSE DALL’ARGENTINA?
Sebbene tipicamente circoscritta alla città di Torino (al punto da essere ignota fino ad anni recentissimi fuori dalla provincia della prima capitale d’Italia), esiste una versione del tutto analoga del tegamino anche in Argentina: è la “pizza al molde”, nota soprattutto nella versione detta “fugazzeta”, composta da due strati di pasta ripiena di formaggio e con in cima cipolle bruciacchiate e altro formaggio. La fugazza con queso (formaggio) si prepara almeno dalla fine dell’Ottocento quando la introdusse, nel quartiere operaio italiano di La Boca, il panettiere napoletano Nicolas Vaccarezza. A seguirlo furono negli anni ‘30 del Novecento molte pizzerie, gestite in gran parte da proprietari e cuochi spagnoli che restarono però poco fedeli alla tradizione italiana.
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di Antonio Puzzi

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