Elogio della frittata di maccheroni

Cosa mangiate voi quando fate un picnic? Panino, tramezzino, insalatona?
E in spiaggia? Granita, gelato, bibitone, smoothie?
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Cosa mangiate voi quando fate un picnic? Panino, tramezzino, insalatona?
E in spiaggia? Granita, gelato, bibitone, smoothie?
 
Noi no: noi Napoletani siamo diversi, noi mangiamo ‘a frittata ‘e maccarune, il cui solo nome è in grado di riempirti la bocca. Un prodotto che iniziamo a gustare sin dalla sua preparazione perché si potrebbe dire che il rito della frittata è esso stesso frittata. Quando, da bambino, andavo al mare o a fare una scampagnata (sciampagnata, si dice dalle mie parti), la preparazione iniziava la sera prima con questo prezioso rituale della cottura e successiva frittura degli spaghetti.
 
Ma cos’è la frittata di maccheroni?
 
È sostanzialmente un piatto della cucina di recupero, che sembra facile da realizzare ma invece richiede arte, nel senso greco di tecnica. Una mia amica grande appassionata di cucina ci ha provato a farla ma le è venuto fuori un papocchio, perché bisogna capire quando è il momento giusto per aggiungere l’uovo, quando quello per girarla all’interno della sartania (padella), quando è il momento di mettere un po’ di pepe e/o di formaggio e quando la crosta è diventata croccante ma il cuore è ancora morbido per lasciar deliziare i sensi. Solo in quel caso è veramente pronta.
Si tratta dunque di un piatto strutturalista in cui si celebra la coincidenza degli opposti. Nasce nelle case di Napoli quando gettare il cibo era “peccato” (dovrebbe esserlo ancora oggi) perché in casa c’era tanta gente, anche quando abbiamo smesso di fare tanti figli perché da noi non si mangia mai da soli. Di fronte alla povertà delle materie prime c’erano dunque due strade quando avanzava la pasta: fare come Totò che in “Miseria e Nobiltà” si mette gli spaghetti nelle tasche oppure riscaldarla alla sera e al giorno dopo. E la pasta riscaldata non è come la “minestra riscaldata” che metaforicamente perde il sapore: la pasta riscaldata lo esalta, come ben racconta Eduardo De Filippo in “Sabato, domenica e lunedì” e come sanno tanti chef, a partire da Peppe Guida che, nel suo locale “Nonna Rosa”, a Vico Equense, ha fatto della pasta e fagioli riscaldata in padella uno dei suoi cavalli di battaglia.
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Ma perché la pasta riscaldata è così buona?
 
Perché noi aggiungiamo l’olio, “le macchie ce le facciamo con l’olio”, diceva sempre Totò in “Miseria e nobiltà”. E la frittura sa rendere tutto più saporito, anche i morsi della fame e i rimorsi della coscienza. Va tuttavia detto che la frittata di maccheroni è la reinvenzione popolare di un piatto nobile: lo scammaro che veniva preparato durante i giorni di magro, quelli della Quaresima, da quei monaci che, per problemi di salute, mangiavano in camera (‘a cammara) perché erano esentati dal digiuno ma, nel contempo, non dovevano destare tentazione per gli altri confratelli: erano dunque scammarati ossia fuori dalla camerata e dentro la loro stanza.
A parlarci per la prima volta di questo piatto è Ippolito Cavalcanti, meglio conosciuto come il duca di Buonvicino ed autore del famosissimo ricettario di cucina partenopea intitolato “Cucina Teorico Pratica” del 1837. La differenza tra le due “frittate” sta soprattutto nel fatto che lo scammaro non è affatto un piatto di recupero, tanto è vero che vi è anche l’uva passa, rinomatamente un prodotto per tavole “da re”.

Non lasciatevi però fuorviare dal nome: si chiama frittata di maccheroni ma si usano gli spaghetti per prepararla. Maccheroni è infatti stato per lunghissimo tempo il nome generico per definire la pasta e ancora oggi in America del Nord il grano duro, usato per preparare appunto le paste alimentari, si chiama Macaroni wheat. L’origine è da maccus, termine latino che vuol dire pestato e che deriverebbe da makaria, il cibo consolatorio preparato con l’orzo che veniva usato per lenire il dolore dei lutti. Non a caso a Napoli si parla ancora oggi di consolazione felice quando si gusta un piatto davvero buono. Macco era però anche una maschera delle Atellane, un mangione grassoccio antesignano di Pulcinella che è rinomatamente un gran mangiatore di spaghetti.
Oltre a quella fatta in casa, esiste anche “l’altra frittata”, più nota ai turisti, quella delle pizzerie. In questo caso, la cosiddetta “frittatina” è raccolta nella pastella, un impasto liquido di acqua, farina, sale e lievito da cui si ottengono anche le “zeppole”, ossia le frittelle / pastecresciute delle friggitorie napoletane.
La pastella un tempo era fatta con l’aggiunta di bicarbonato per renderla effervescente mentre oggi, nel revanscismo tipico della cucina di recupero, si usa l’acqua minerale.
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Quando ero bambino io, l’unica domanda che mi faceva la mamma per la frittata di maccheroni era: bianca o rossa?
Ossia aggiungo o no il pomodoro?
 
Sale, pepe e uovo c’erano sempre. Oggi, in pizzeria, la trovate anche coi piselli, con salsicce e friarielli e con tutto ciò che “il vostro cuore desidera”.
 
La mia preferita?
Quella classica, preparata con grande cura, nella pizzeria di Maria Cacialli, nota come “La figlia del Presidente” in via del Grande Archivio.
E, come si dice a Napoli, “ve cunsulate”.
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di Nio

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